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"When space becomes a place for action and thought"

Exhibition dates: 30/06 - 23/09/2022

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ARTWORKS

INSTALLATION VIEWS

Testo italiano / English text -scroll- 

 

Quando sono stata chiamata dalla Galleria 10 A.M. ART per pensare a una mostra collettiva dedicata alla contemporaneità, ho proposto una rassegna su un tema quanto mai vasto e per certi versi molto complesso, quello dello spazio. Abbiamo così coinvolto quattro artisti. Conoscevo già alcuni di loro, di qualcuno mi ero già occupata, un altro è una scoperta dovuta a questa mostra.

Perché proprio lo spazio, un tema così apparentemente generico? È un ambito che da sempre mi affascina, mi attrae e qui a maggior ragione la scelta è stata tra artisti profondamente diversi tra loro, che non hanno mai esposto insieme, ma che qui riescono a dare vita a una coralità sullo e nello spazio luogo di azione e di pensiero.

La complessa scatola espositiva propone lavori dedicati al linguaggio, indagini sul tema proposto. È una metamostra, una mostra sulla mostra, in cui ciascuno degli artisti è stato scelto proprio per il ruolo che avrebbe occupato nello spazio della galleria, diviso in due zone, una superiore con i lavori più recenti e una inferiore con i lavori che fanno parte della memoria del loro percorso. Sono tutti piuttosto giovani e non possiamo certo lavorare su una dimensione ampiamente diacronica, piuttosto cerchiamo di trovare delle relazioni progettuali che riescano a sottolineare la coerenza del percorso messo in atto e la capacità degli artisti di giungere, attraverso uno stesso tema, ad altre proposte e soluzioni concettuali.

 

I lavori in mostra di Luca Lupi appartengono ad alcune recenti serie di lavori, in cui la ricerca oltre che in ambito spaziale si colloca in ambito temporale. Il tempo crea la cancellazione e lo spazio ospita la forma, creata con la luce. Si viene così a creare una coesistenza simultanea di presenza e assenza del colore. L’artista lavora qui con i quattro colori principali nella stampa: il ciano, il magenta, il giallo e il nero. La sua idea è quella di creare in maniera empirica la carta fotografica. È un superamento del mezzo stesso che sta tra artista e soggetto, attraverso l’eliminazione di qualsivoglia autorialità. È come se Lupi fosse riuscito a riassumere in questo ultimo lavoro i suoi lavori precedenti avvicinandosi al concetto di limite dell’immagine, per realizzare la quale non è necessario usare la fotocamera.

Gli interessa la reazione alla luce di una determinata superficie. «È un lavoro nato in un contesto particolare, quello del lockdown. Mi sono ritrovato chiuso all’interno di una stanza senza poter uscire a fotografare i soggetti e il paesaggio. Così ho iniziato a lavorare a questi paesaggi mentali, che richiamano gli albori della fotografia, i disegni fotogenici di Talbot». E noi aggiungiamo le talbotipie o le cianotipie di Anna Atkins, ricerche in cui gli autori non si servivano della fotocamera. Il senso del lavoro è proprio quello di tornare all’inizio della storia della fotografia, anche per riuscire a trovare un senso al proprio lavoro, realizzato nel corso degli anni, dedicato soprattutto all’ambito paesaggistico, già molto essenziale e privo di una prospettiva, di un particolare punto di vista.

Sono queste delle opere che richiamano il significato della parola fotografia, segno, scrittura di luce, che in questo caso è una radiazione elettromagnetica e non una fonte di luce qualsiasi. Lupi ha dato vita a un’operazione concettuale.

La fotografia può essere realizzata anche stando chiusi nel proprio studio. Per andare lontano non si deve per forza uscire con la macchina fotografica al collo. In un momento di eccessiva produzione di immagini vien voglia di cancellare più che di aggiungere dell’altro.

Questo suo lavoro può essere letto in tre fasi, con tre momenti successivi. La prima è quella di poter ricreare in studio un paesaggio. Durante la seconda l’artista cerca di dare forma alla luce, dando vita a figure geometrizzanti. Nella terza c’è un’ulteriore evoluzione: l’artista stampa una carta bianca una volta o due volte e interviene per eliminare gli strati di colore e per formare un’immagine. Il suo è un tentativo, riuscito, di materializzazione di quanto apparentemente non lo è, che ha luogo all’interno di uno spazio definito, in cui è un’indagine di matrice linguistica e concettuale.

 

Di Francesco Del Conte è in mostra Skyglow, composto da 9 fotografie. È un lavoro che si muove su due piani. Da un lato c’è l’interesse dell’artista nei confronti di una problematica ambientale, quella dell’inquinamento luminoso. In relativamente pochi anni l’uomo è, infatti, riuscito a distruggere il suo rapporto visivo e non solo con l’universo, con le stelle, le costellazioni. Parallelamente è anche una riflessione sull’utilizzo dello strumento fotografico. Perché il lavoro abbia una valenza scientifica vanno, infatti, rispettate delle regole che coinvolgono i parametri fotografici: il tempo, l’esposizione, la pellicola, l’ottica scelta e anche le condizioni metereologiche devono essere invariate e funzionali allo scopo. Proprio come in ogni ricerca in cui si tende a tipologizzare, così i Becher e mutatis mutandis Opalka, per nove volte Del Conte ha cercato e trovato le stesse condizioni operative. Il punto di riferimento sono tre stelle Vega, Altair e Deneb fotografate a Torino, sui colli piacentini e nel deserto del Tabernas in Spagna.

Anche qui per certi versi è un annullamento dell’autorialità. L’artista si pone come una sorta di registratore della realtà attraverso la luce. È un tentativo di utilizzare la fotografia nel modo più oggettivo e analitico possibile. «Le stelle che sono al centro delle mie immagini non sono il mio soggetto, è come se quasi non ci fosse un soggetto, sono solo delle coordinate». In questo come in altri suoi lavori il soggetto è solo un pretesto di indagine per compiere un’operazione concettuale legata alla fotografia e al modo in cui questa disciplina può essere usata.

In Skyglow, tuttavia, ci pare di poter leggere anche un contesto poetico, contemplativo, per certi versi romantico, sicuramente silente. Il fulcro del lavoro è lo strumento fotografico, come nel resto della sua ricerca, si pensi in tal senso alle grandi foto con le frese meccaniche, esposte nella parte inferiore della galleria, le cui proiezioni sono state oggetto di una mostra, da me curata presso la Basilica di San Celso a Milano. Del Conte utilizza lo strumento nel modo più analitico e oggettivo possibile, annullando, appunto, quasi totalmente l’autorialità, la sua scelta in tal senso diviene una sorta di velata critica all’uso ipersoggettivo della fotografia nella società contemporanea.

«Così facendo i concetti di narrazione, composizione, spazio, che normalmente sono degli aspetti fondamentali del fare fotografico, vengono meno perché queste fotografie potrebbero essere messe in orizzontale, diagonale, verticale, non c’è un ordine, non c’è una logica estetica».

 

È un grande compasso nero l’installazione di Ludovico Bomben, collocata nella parte superiore della galleria, che si pone in relazione con una pala bianca sagomata, un evidente richiamo formale alla storia dell’arte antica. Al piano inferiore è un’altra pala, che si pone in relazione con le altre opere.

Bomben è affascinato dagli strumenti stessi, così è capitato con il compasso a tre gambe, che veniva utilizzato nella nautica o nella scultura antica. «All’interno di quell’oggetto ci sono una serie di informazioni che ritrovavo in tutto il mio lavoro di ricerca. L’ idea della precisione, dell’attrezzo che si usa per calcolare la sezione aurea, del disegno geometrico, perfetto, pulito». Il compasso è eloquente, in esso è l’idea del viaggio: esso è stato usato per calcolare le rotte, per le mappe stellari. È un oggetto che trova in se stesso il suo significato ontologico.

Quasi tutte le opere che Ludovico Bomben realizza sono veri e propri attrezzi, che lui stesso costruisce per modulare, a sua detta, alcuni moti della sua anima.

Le pale in mostra sono bianche. In una il rilievo è sottolineato da un bordo d’oro, è una sorta di rilettura in chiave contemporanea dell’oggetto sacro per eccellenza della pittura antica occidentale. È un oggetto silente in cui l’artista indaga il concetto di limite, anche nell’accezione sacra del termine. È come se la materia volesse mostrare che al suo interno c’è una preziosità da custodire. L’esterno diviene una sorta di gabbia, come nella filosofia neoplatonica, l’anima, il vero, sono custodite e avvinte dalla materia.

L’idea è quella che l’opera nella sua essenza abbia l’esigenza di mostrarsi.

C’è inoltre un’accezione linguistica tutt’altro che marginale. In greco antico, bianco si dice λευκος, leukos. Bianco come purezza. La parola luce deriva dal latino lux, dalla radice indoeuropea leuk. Si può in tal senso rintracciare una radice etimologica comune. Bianco come luce e luce come bellezza con un evidente richiamo al mondo dell’abate Suger, che conosciamo attraverso i preziosi studi di Erwin Panofsky. Dunque luce in senso spirituale, che Bomben cita e trasla nelle sue pale bianche e oro.

Nell’altra opera in mostra è un parallelepipedo d’oro posto sulla pala bianca. Un’opera di grande forza in cui mi pare di intravvedere l’idea di canone proposto da Andrej Tarkovskij nel suo film sull’iconista russo in Andrej Rublev. E tutto questo ha ancora a che fare con l’idea del rapporto tra l’arte e l’attrezzo che la forgia. «Il canone è il limite dal quale si può iniziare ad essere liberi» per scolpire il tempo in una continua ricerca di verità.

 

In tutti i lavori di Federico Lissoni non esiste l’idea di progetto specifico, esiste, al contrario, un modus operandi che è uguale per tutte le sue opere, che si sviluppano in fieri, tenendo conto anche dell’errore, che più che tale, potrebbe essere definito una fase del processo operativo. «L’opera è il risultato di una serie di azioni, di errori, di circostanze, di cose che penso e che faccio, che poi arrivano a una fine, un momento che decido io stesso». L’opera di carta grezza, che poi viene applicata su una tela, è oggetto di passaggi continui, di azioni più o meno violente, di strappi, di incollaggi di elementi diversi.

Il quadro è uno spazio di lavoro in cui Lissoni suddivide i diversi momenti spaziali.

Se in un primo momento l’artista era interessato a dare vita a un equilibrio, a un’armonia, ora è più affascinato da una dimensione squilibrata tra le diverse parti dell’opera, situazione che potrebbe essere comparata a una particolare dimensione esistenziale, in cui viene a crearsi una sorta di ictus, che infrange gli equilibri.

Lo sguardo curioso dell’artista è sempre andato a esaminare il suo circostante, ai muri delle case ridipinti per coprire le scritte, ai cartelloni pubblicitari, al non finito, alle piccole o grandi lacune. È affascinato dalle cancellature che diventano loro stesse segno. I suoi sono spazi silenti, fatti di pause, di attese di quanto deve ancora venire.

In una delle opere in mostra del 2016-2017 è presente l’immagine di un capitello. In quel periodo l’artista utilizzava parecchie immagini di elementi architettonici classici in una sorta di ciclicità della storia, che diviene memoria di se stessa, in cui lo spazio dell’arte è anche spazio dell’esistenza.

 

When the 10 A.M. ART gallery invited me to develop a group exhibition dedicated to contemporaneity, I suggested we explored a very vast and under some respects complex theme, that of space. We involved four artists: two of them I knew already, one I had previously worked with, and one we discovered for this exhibition.

But why choose such an apparently generic subject like space? That of space is a field that has always attracted me and here, all the more so, the choice has fallen on radically different artists, who have never displayed their works together, but who for this project have succeeded in creating a choral outcome about and in space – place of action and of thought.

The complex exhibition setting displays works dedicated to language and investigations on the chosen subject. This is a meta-exhibition, an exhibition about the exhibition, where each one of the artists involved has been chosen especially for the role they would play inside the gallery space, which appears divided in two areas: the upper area with their latest works and the lower area with works representative of their previous phases of research. Since the artists are all rather young, we certainly could not focus on a widely diachronic dimension, therefore we turned our attention to project-related connections that might underline the consistency of their work and their capacity to reach, through one same theme, new proposals and conceptual solutions.

 

Luca Lupi’s works on display belong to some of his recent series, where his research besides being spatial is also temporal. Time leads to cancellation and space welcomes form created by light, and what emerges is a simultaneous coexistence of presence and absence of colour. The artist here works with the four basic printing colours, cyan, magenta, yellow and black. His idea is to empirically create photographic paper: this is the overcoming of the medium itself standing between the artist and the subject, through the elimination of any form of authorship. It is as if Lupi, in this latest work of his, had managed to summarize his previous productions, drawing closer to the concept of limit of the image, which no longer requires a camera to be brought into existence.

He is interested in the reaction specific surfaces have to light. “This is a project that was born in a specific context, that of lockdown. I found myself closed inside a room, without the possibility of going out to photograph subjects and landscape. So I started working on these mental landscapes recalling the dawn of photography, Talbot’s photogenic drawings," and Anna Atkins’s talbotypes and cyanotypes – all lines of research where authors did not employ a camera. The sense of Lupi’s work is precisely that of returning to the early stages of the history of photography, also to find meaning in the work he produced over the years, mostly dedicated to landscape and so essential, devoid of perspective, and of any specific point of view.

These are works that recall the meaning of the word photography, impression, light writing, that in this case is an electromagnetic radiation and not an ordinary source of light. Lupi’s creations are in fact a conceptual operation.

Photographs can be made even without leaving the studio. To go places the artist does not necessarily need to go out with a camera round his neck. In our time of excessive image production, one feels more the need to erase rather than to add something more.

This work by Lupi can be read in three phases, as if it were a sequence of three consecutive moments. The first consists in creating a landscape inside the studio; the second in giving shape to light, creating geometric-like figures; the third is a further evolution: the artist prints a white paper once or twice and intervenes to eliminate the layers of colour to form an image: a successful attempt to materialize what seemingly is not material and that occurs within a definite space, where it essentially becomes a linguistic and conceptual investigation.

 

Francesco Del Conte displays Skyglow composed of nine photographs. This is a project developing on two levels. On the one hand there is the artist’s interest in an environmental issue, light pollution. Over relatively few years, humans have in fact succeeded in destroying their visual relation with the universe, the stars, and the constellations. In parallel Del Conte’s work is also a reflection on the use of photographic instrumentation. In order for his work to have a scientific validity, the artist had to respect the rules of photographic parameters, taking into account time, exposition, film, lens and even weather conditions, which had to remain constant in order for his project to be successful. Just like in every research with a tendency to typify, for example in the Becher’s, and mutatis mutandis, in Opalka’s, for nine times Del Conte searched for and found the same working conditions. His points of reference were three stars, Vega, Altair, and Deneb, which he photographed in Turin, on the hills near Piacenza and in the Tabernas Desert in Spain.

Even in this case we could say there is some level of authorship cancellation, with the artist acting as a sort of recorder of reality through light, tying to use photography in the most objective and analytical way possible. “The stars that are at the centre of my images are not my subject. It is almost as if there were no subject, they are mere coordinates." In this work as in others by this artist, the subject is only a pretext to explore a conceptual operation connected to photography and to the way this discipline can be used.

In Skyglow, however, we believe we can also detect a poetic, contemplative, and under some respects romantic and definitely silent context. The fulcrum of the work is photographic instrumentation as in the rest of his practice. The great photographs of milling machines displayed in the lower part of the gallery come to mind, whose projections have been the subject of another exhibition I curated in the Basilica di San Celso in Milan. Del Conte uses photographic instrumentation in the most analytical and objective way possible, almost completely eliminating authorship, as mentioned above. His choice in this context becomes a sort of veiled critique to the hyper-subjective use of photography in contemporary society. “By doing so, the concepts of narrative, composition, space, that are normally fundamental aspects of a photographic practice, are cast aside since these photographs could be placed horizontally, diagonally, vertically. There is no order, there is no aesthetic logic."

 

Placed in the upper part of the gallery, Ludovico Bomben’s installation is a large black compass, interacting with what is a clear formal reference to antique art, a white moulded panel. On the lower level of the exhibition space is another panel whose presence interrelates with that of other works.

Bomben is fascinated by instruments per se, in this case a triangular compass as those used for navigation or sculpting in times past. “Inside that object there is an array of information that I find in all my work. The concept of precision, an instrument used to calculate the golden ratio, and the notions of geometric, perfect, and spotless drawing." The compass is an eloquent piece, retaining the idea of journey, an instrument once used to calculate routes and draw sky charts, an object that finds its ontological meaning within itself.

Almost all of Ludovico Bomben’s works are actual instruments that he himself builds to modulate, as he maintains, certain motions of his soul.

The panels he displays are white. In one the relief is marked by a golden contour delivering a sort of contemporary interpretation of the ultimate sacred object of western religious painting: a silent object through which the artist investigates the concept of limit, even in the sacred connotation of the word. It is as if matter wanted to show how it bears a preciousness within, a value that must be treasured. The exterior becomes a sort of cage, as in Neoplatonic philosophy where the soul and truth are preserved, enshrined and withheld by matter.

The underlying idea is that the work in its essence has the need to show itself.

There is also another and not least important linguistic aspect. In Ancient Greek the word for white was λευκος, leukos. White like purity. The Italian word luce (light) derives from the Latin lux, which in turn comes from the Indo-European root leuk. Therefore there is a common etymological origin. White as light and light as beauty, parallelisms with a clear reference to the world of the Abbot Suger whom we have known through Erwin Panofsky’s valuable studies. Therefore we are talking about light in a spiritual sense, that Bomben quotes and transfers onto his white and golden panels.

His other work on display features a golden parallelepiped placed on a white panel creating a highly impactful piece where I sense a reference to the canon proposed by Andrei Tarkovsky in his film about the Russian icon painter Andrei Rublev, once again an exploration of the idea of the relation between art and the instrument used to forge it.

“The canon is the limit from where we can start to be free" to sculpt time in incessant research for truth.

 

All of Federico Lissoni’s works do not stem from a specific project idea, but on the contrary, they express a modus operandi common in all his production, which is developed during the process, also taking error into account, which rather than a mistake could be read as a stage of the process. “The finished work is the result of a series of actions, mistakes, circumstances, things I think and do, which eventually come to an end, the moment I decide the process should stop." The raw paper work, which is then applied to canvas, undergoes a number of continuous processes, more or less violent actions, tears, and gluing of various elements.

The painting is a working space where Lissoni identifies different spatial phases.

If at first the artist was interested in creating balance and harmony, now he is more fascinated by an unbalanced situation between the different parts of the work, a condition that could be compared to a particular existential dimension, where a sort of balance-shattering accent is brought to the fore.

The artist’s curious gaze has always journeyed to examine his surroundings, to walls with overpainted writings, billboards, to the unfinished, to gaps large and small.

He is fascinated by erasures that in turn become signs themselves. His are mute spaces, made of pauses, of waiting for what is yet to come.

In one of the works from the 2016-2017 exhibition there is the image of a capital. At that time the artist was using several images of classical architectural elements unfolding in a sort of cyclical history, which in turn becomes a memory of itself, where the space of art is also the space of existence.

Opening:

30 June 2022, 5.00 pm

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